Il mondo del lavoro è in una fase di grande trasformazione, una fase che, in realtà, affonda le sue radici nei decenni passati ma che, senza voler scomodare i sostenitori del luddismo, con l’arrivo dell’ultima rivoluzione chiamata “Intelligenza Artificiale” ha registrato un nuovo ma non definitivo impulso. A questo, poi, vanno aggiunti altri fattori “sociologici”. Lo tsunami creato dalla pandemia ha portato con sé anche uno stravolgimento dei valori.
Le grandi dimissioni nel post Covid
Molti lavoratori hanno letteralmente ridisegnato le priorità preferendo lasciare i propri impieghi e dando così vita al fenomeno delle grandi dimissioni fenomeno che, successivamente, ha visto anche un progressivo ridimensionamento. Non bisogna inoltre dimenticare che il settore lavorativo e produttivo in generale è in continuo divenire e deve rispondere alla costante evoluzione della domanda e dell’offerta oltre che degli stili di vita di una popolazione mondiale quanto mai variegata. Ecco allora, ad esempio, che in Giappone, nazione in cui il lavoro è storicamente un valore sociale, molti giovani iniziano ad abbandonare il lavoro entro 3 anni dall’assunzione. Un fenomeno che ha registrato una tale espansione da creare un vero e proprio boom delle agenzie di dimissioni. Il cambio generazionale ormai in atto da vari decenni, infatti, ha portato la società giapponese ad essere una delle più longeve al mondo. Ne consegue che, mancando i giovani, i datori di lavoro, invece di promuovere incentivi, esercitano forti pressioni sugli impiegati assunti per evitare il licenziamento.
Il caso delle Big Tech
Nel resto del mondo, poi, quando non sono i lavoratori a volersi licenziare, sono le aziende a dover tagliare. Spesso anche quei giganti che, per antonomasia, rappresentano non solo una certezza (vedi Volkswagen che proprio in queste ore ha annunciato la possibile sdi tre stabilimenti in Germanaia e il licenziamento di migliaia di dipendenti) ma anche il futuro dell’economia. Recentemente, infatti, uno dei settori maggiormente colpiti dai licenziamenti è quello tecnologico.
I numeri non lasciano scampo. Da Facebook (11.000 licenziamenti) ad Amazon (10.000) passando per Uber (6.700), Groupon (2.800), Twitter (3.700) ed incorporando anche Microsof , Intel ma anche Tesla che, prima tra le aziende produttrici di auto elettriche, oltre che la debolezza della domanda, si è trovata a dover combattere anche contro la concorrenza cinese. Sì, perché quando si tratta di tagli, bisogna considerare anche il panorama geopolitico e i finanziamenti statali e le agevolazioni a fondo perduto che le aziende cinesi possono sfruttare, a differenza di quelle di tutto il resto del mondo.
Se poi a questo si aggiunge la tempesta perfetta del Covid-19 che ha creato un blocco delle catene di produzione e dei consumi e, quindi, anche della pubblicità online, allora si può avere un quadro, seppur ancora non definitivo, delle tante ragioni che hanno messo in crisi i settori produttivi, big tech incluse.
Le fusioni in Europa
Non esente dal problema licenziamenti nemmeno il settore bancario che, dopo le ultime parole dei vertici BCE, deve riuscire a trovare una stabilizzazione facendo ricorso anche alle fusioni. Ma una politica del genere rischia di creare tensioni a livello politico oltre che finanziario e il caso Unicredit – Commerzbank ne è l’esempio più evidente
Il fenomeno del buyback
I motivi che portano al licenziamento in massa sono tanti. Ma quello più citato dai vertici aziendali è ovviamente la razionalizzazione delle risorse e il taglio dei costi. Molti CEO, chiamando in causa le difficoltà economiche di una domanda debole oltre che le variabili di un panorama internazionale incerto, si dichiarano costretti a licenziare. Coinvolti in questa selezione naturale sono stati, nell’ultimo anno, non solo i settori produttivi classici ma anche quelli della finanza, della tecnologia e dei media. Tagli che arrivano nonostante ricavi e profitti delle aziende che, come confermano le varie classifiche di Fortune 500 e le stagioni delle trimestrali sui mercati, sono cresciuti in maniera spesso esponenziale tra il 2014 e il 2022. Spesso, poi, all’annuncio dei tagli del personale, le grandi aziende fanno seguire quello sul riacquisto azionario.
Stando alle rilevazioni di Oxfam, rete di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, le strategie di buyback nel 2022 hanno raggiunto il record di 681 miliardi di dollari. Spesso a trarne vantaggio sono anche i compensi dei vertici aziendali. Il report di Oxfam, infatti, sottolinea che i compensi dei CEO tra il 2018 e il 2022 “hanno raggiunto livelli record”.
La “tradizione” italiana: il caso Stellantis
C’è poi il caso italiano di Stellantis che affonda le sue radici nei decenni del passato quando l’azienda aveva sede in Italia e si chiamava Fiat. Dalle lotte operai con gli scioperi nei tanti stabilimenti (erano gli anni ’70) il problema si è trascinato negli anni fino ad oggi. L’ex Fiat si è trasformata in Stellantis e da simbolo dell’industria italiana si è trasformata in azienda internazionale in perenne lotta con la concorrenza, i giganti statunitensi e cinesi ma, anche, con le innovazioni e le metamorfosi di un settore in piena rivoluzione. Ma i problemi con gli operai e i licenziamenti sono ancora sul tavolo dei sindacati. Irrisolti ieri come oggi.
L’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares ha recentemente dichiarato, a proposito dell’ultimo profit warning «Si tratta essenzialmente di un problema di scorte eccessive – ha spiegato. – Penso di poter dire con certezza che il problema sarà risolto prima del Natale 2024». In un’altra intervista al quotidiano francese Les Echos ha parlato di competitività. «Il calo dei margini è un tema per Stellantis e riuscire a mantenerli a doppia cifra è una discussione di competenza del Cda, io faccio delle proposte e loro le approvano o meno. Se guadagneremo meno, dovremo adeguare di conseguenza il nostro livello di investimenti e vedere se riusciremo a progredire con la stessa rapidità dei nostri concorrenti cinesi – ha aggiunto. – L’anno scorso abbiamo investito 14 miliardi di euro. Un margine a due cifre è un impegno che ho preso nell’ambito del piano Dare Forward 2030, presentato nel 2022. Se il contesto rende completamente insensato il raggiungimento di questo obiettivo, non ci aggrapperemo a esso a tutti i costi. Non siamo pazzi. La questione non riguarda tanto i margini a due cifre, quanto la necessità di mantenere l’azienda competitiva, di mantenere una redditività sufficiente per investire e stare al passo con i migliori del mondo».