Il settore bancario italiano è stato al centro delle cronache per interessanti movimenti sul fronte del consolidamento deciso da alcuni importanti istituti. Decisioni che, oltre a dinamiche interne, rispondono anche ad una precisa richiesta dell’Unione che, a sua volta, punta ad un rafforzamento dell’intero panorama europeo. A delineare meglio il quadro di quanto sta accadendo è Francesco Megna, esperto di finanza ed economia.

Francesco Megna
Il 2024 è agli sgoccioli, che anno è stato per il settore bancario?
«Anche per il 2024 le condizioni del sistema bancario si stanno mantenendo favorevoli. Nel primo semestre soprattutto la redditività è ulteriormente cresciuta e si prevede che essa rimanga alta anche per almeno la prima parte del 2025. Il riassorbimento da parte dell’eurosistema dell’abbondante liquidità in eccesso sta procedendo senza difficoltà. In prospettiva la riduzione del margine di interesse e le maggiori rettifiche attese sui prestiti potrebbero incidere negativamente sulla redditività degli intermediari. La patrimonializzazione è aumentata e per le banche significative è superiore a quella media degli intermediari dei Paesi partecipanti al meccanismo di vigilanza unico. L’esposizione ai rischi cibernetici operativi richiede forte attenzione».
Il settore italiano sta vivendo una fase di trasformazione: dopo il caso Unicredit -Commerzbank ora sotto i riflettori c’è quello Unicredit-BPM. Cosa sta succedendo?
«L’offerta pubblica di scambio che Unicredit ha lanciato tempo fa per comprare il Banco BPM ha riaperto quello che sui giornali viene spesso chiamato risiko bancario, che è un’espressione che descrive abbastanza bene il continuo movimento di acquisizioni e fusioni nel settore bancario italiano ed europeo. Seguendo la metafora, un po’ come nel famoso gioco da tavola, le banche sono da tempo impegnate in un lungo e complesso processo in cui conquistano o sono conquistate, cioè comprano o sono comprate. Questo orientamento il cosiddetto consolidamento degli istituti, come appunto si chiama in generale lo finanziario, è iniziato negli anni 90 ed è finita per diventare una questione di sopravvivenza per il settore a partire dall’inizio degli anni 2000, con la crescente internazionalizzazione dei mercati finanziari e con la maggiore rilevanza della tecnologia e dell’informatica. Le banche cercano di ingrandirsi nel tentativo di conquistare una quota di mercato nazionale e anche internazionale che consenta loro di ottenere quelle che si chiamano le cosiddette economie di scala o economie di scopo. Nel concreto significa diventare abbastanza grandi da ridurre complessivamente i costi proprio in relazione al giuro d’affari e contemporaneamente riuscire a dare ai clienti un’offerta di prodotti sufficientemente vasta da soddisfare i bisogni che le banche piccole talvolta lasciano inevasi. Quindi, ad esempio, nel mercato bancario europeo una piccola banca locale, per esempio dell’Umbria o delle Marche, può trovarsi in diretta concorrenza con un grande gruppo di Parigi o di Berlino, che ha una filiale nella stessa zona. La piccola banca locale, nonostante in certi contesti mantenga ancora un ruolo economico e sociale vitale e essenziale, ha dei limiti. Innanzitutto non riuscirà mai a offrire i suoi servizi allo stesso costo del grande gruppo, che ha una dimensione tale da essere più efficiente e competitiva nei prezzi e talvolta non riuscirà a soddisfare alcune richieste dei clienti, soprattutto quelle più specifiche o avanzate. Un esempio di queste richieste oggi potrebbe essere il trading di strumenti finanziari, quelli di nicchia. Vent’anni fa poteva essere un banale home banking, cioè l’accesso al proprio conto tramite Internet. È chiaro che con l’avanzamento tecnologico e il crescente ruolo dell’informatica nella gestione delle attività finanziarie, questo divario si è lentamente allargato. L’innovazione ha richiesto investimenti enormi alle banche per il sviluppo e il mantenimento dei sistemi, ma anche per tutto ciò che riguarda la protezione dei dati, la sicurezza e così via. A questo si aggiunge l’esigenza sempre più sentita per gli istituti di credito di essere presenti in più paesi con i loro uffici, i loro filiali per garantire servizi ai clienti che viaggiano e alle imprese soprattutto che esportano. Da queste esigenze nasce la necessità di ingrandirsi e una grande spinta qui dal cosiddetto risiko bancario».
MPS, banca storica e dalla vita travagliata, ha visto le sue quote messe in vendita dal governo. Si potrebbe tentare di fare il punto della situazione?
«Con il 15% del capitale ritenuto dal Governo ceduto nel mese di novembre, tra Milano, Siena e Roma pareva prendere forma il terzo polo bancario italiano con una rete commerciale di quasi 3 mila filiali, un SGR con 200 miliardi di masse gestite e una fabbrica assicurativa vita di grandi dimensioni. Questo doveva essere l’esito della privatizzazione del Montepaschi che si è conclusa il 13 novembre. Il lascio dell’OPS su Banco BPM e le conseguenti mosse succedutesi nei giorni a venire ha scompigliato i piani del Governo che appunto si era adoperato per far nascere il terzo polo bancario. Caltagirone e Delfin insieme a Banco BPM avevano sottoscritto le quote di capitale cedute dal Governo Caltagirone che recentemente è arrivato fino al 5% del Monte dei Paschi di Sena. Tutto palla a centrocampo, tutto rimesso in discussione e vediamo gli sviluppi a breve termine».
L’Europa vorrebbe che il settore bancario rafforzasse la sua posizione e preme per le fusioni. Quali sono, nello specifico, le richieste di Bruxelles?
«La BCE il mese scorso ha lanciato un nuovo appello a smettere di pensare nazionale con le banche per pensare europeo in modo sempre più globalizzato. La Presidente della BCE, Christine Lagarde non fa menzioni di casi specifici, non cita il caso Unicredit, la scalata di Commerzbank, ma lascia intendere che potrebbe essere una delle chiavi per il successo economico europeo. Quindi completamento di unione bancaria, completamento del mercato dei capitali, certo, ma soprattutto rafforzamento del settore bancario e collaborazione tra istituti, oltre che tra governi. “Le banche veramente europee possono diversificare efficacemente i loro rischi tra settore e regioni” dice il Presidente Lagarde, in occasione del decimo anniversario del meccanismo di vigilanza unico. Quindi banche europee forti che hanno capacità di prestare di più su larga scala e quindi gestire progetti di finanziamento transfrontalieri che le banche più piccole, focalizzate localmente, non possono tra l’altro sostenere. Le banche più integrate hanno la massa critica per attrarre aziende in tutta l’area dell’Euro per quotazioni in borsa, collocamenti di titoli di debito, transazioni di private equity, fusioni e acquisizioni e supporto alla crescita internazionale. Quindi “grandi e solidi gruppi possono fare molto comodo all’Europa”, come precisa la Presidente della BCE e guardando l’agenda politica e gli obiettivi che gli stati dell’UE e delle eurozona si sono dati, per emergere più forti abbiamo bisogno di massicci investimenti, sia nel capitale fisico che in quello umano. Perciò le grandi banche possono stimolare gli investimenti attraverso prestiti, ma i privati rischiano di essere atterrati altrove, perché attualmente solo due banche costituite nell’area dell’Euro si classificano tra le dieci banche più grandi del mondo. Quindi l’unione Unicredit Commerce Bank potrebbe essere una di quelle operazioni che serviva all’Europa e al suo futuro, operazione che come tutti sappiamo per adesso è congelata».
È possibile fare una panoramica sul settore bancario italiano e su quello europeo? Quali previsioni fare per il prossimo anno?
«Per il prossimo anno è facile prevedere comunque un assestamento, anche perché la fusione, l’OPS lanciata da Unicredit su Banco BPM porterà comunque, quasi sicuramente a un cambiamento importante nel panorama bancario italiano comunque andrà a finire, perché le banche in gioco sono tante e importanti (Unicredit, Banco BPM, Credit Agricole, Monte Paschi di Siena, BPER, Unipol)».
Quindi, conclude Megna, sicuramente anche in Europa sulla scorta di queste operazioni ci sarà fermento.